martedì 1 novembre 2011

Il manuale di Delfi




Se, realmente, la filosofia  c'è mai stata d'aiuto per qualcosa, è proprio per iniziare a riflettere su cosa per noi sia realmente la conoscenza, magari proprio per osservare come le concezioni di quest'ultima si sono trasformate nel riflesso della  mente di chi, di volta in volta, affrontava la questione in maniera noncurante  delle trasformazioni temporali, al momento in cui del tempo stesso non ti curi.
Esiste un problema, un problema di livelli, di certezze e di cultura non indifferente, che ci rende davvero poco disposti a riflettere sul profondo significato di questa parola, sul suo valore  che, se vogliamo, ha mantenuto soltanto la sua corazza esteriore, una specie di patina dizionariesca che trasfigura enormemente la realtà.
In questo caso, vorrei restringere il campo su un elemento e parlare del problema della conoscenza che "libera", della conoscenza che spesso viene associata alla verità o a parte di essa, l'esplosione di luce che serve a trascendere una qualsiasi situazione di stasi o, molto più probabilmente, dell'illusione che ciò sia effettivamente tale.
Nella nostra bolla d'aria culturale e sociale, è quasi del tutto certo che sia ormai andata perduta l'attenzione nei confronti di vari elementi, come l'attenzione al significato delle parole e all'origine delle stesse o il senso del rituale/della devozione, entrambi aspetti che convergono nel calderone più grande che è quello dell'assenza di regole, ovvero "l'anomia", ovviamente parlo di regole superiori, metafisiche, leggi non scritte e che, adesso, non sono nemmeno più parlate, perchè nemmeno più pensate.
La società di cui noi siamo gli eredi, ha creato con calma e solerzia il Dio che poteva comprendere e addomesticare, l'ha messo in competizione con l'uomo stesso, ponendolo alla destra del concetto di patria, prima ed  in seguito del "libero pensiero", fino ad ucciderlo; uccidere un'invenzione  il cui unico fine è sempre stato  "staccare l'umanità dal cielo",  inalzando, mattone dopo mattone, un palazzo di menzogne, che oscurasse il sole che emanava su di noi e quel Dio è bruciato esattamente come il cavallo di Troia, dopo essere servito al suo scopo, insieme alla città.
E a noi, a noi cosa resta? O meglio, a quelli di noi a cui ancora interessa davvero conoscere, cosa rimane?
Ammesso e concesso che il percorso che ci ha portato qua, era probabilmente necessario e risulta, al momento, altamente incontrovertibile, dobbiamo prendere atto che l'atmosfera che ci circonda, non è la stessa di altri tempi disseminati nella storia , è cambiata l'intelaiatura stessa che compone i nostri rapporti, il nostro modo di sentire e di immaginare; bisogna iniziare a vedere, con tutte le forze, che per diventare liberi in questo senso, urge trasformarsi nell'uomo/donna senza tempo...o di tutti i tempi.
Per far questo, dobbiamo iniziare a buttare giù la nostra parte di castello grigio e riappropiarci del percorso umano autentico(non umanistico, però), cercando di far combaciare il nostro più intimo sentire, con quello che di più antico c'è dato sapere.
L'attenzione per la conoscenza antica, tradizionale, dovrebbe arrivare anche e solo per un motivo: la maggior parte di ogni concetto/parola che usiamo, deriva dal passato remoto ed ogni volta che lo usiamo, compiamo un atto di fede, al momento in cui non ci chiediamo mai "perchè" lo usiamo, chi è che l'ha usato o da chi o cosa deriva e se da altre parti è usato così o meno, parlo chiaramente del tipo di linguaggio più puramente astratto e metafisico, quello che si perde, ogni volta che iniziamo una descrizione dello stesso, tramite altre parole.
Sia ben chiaro che qua non si sta parlando di banale (ma comunque utile) filologia, ma più propriamente di "logìa"; cercare di entrare in un mondo perduto in cui, se  veniva pronunciato un termine,  veniva evocato in forma sonora l'inalterabile significato a cui il termine stesso alludeva, senza bisogno di esplicazioni, senza dover rappresentare necessariamente forme esemplificative dell'oggetto/soggetto o rapportarlo ad altro, cose queste che, per inciso, ci hanno portato dove siamo: possessori abusivi di termini e concetti alla mercè di ogni possibile fantasticheria, svuotati di forza e usati come maschere sopra banali idee poco più che logiche.
Probabilmente avremo tutti in mente l'immagine ancestrale del mago, arrivata a noi, per fortuna,tramite le fiabe o le leggende e le sue formule pronuziate con fare emblematico : quella è l'esatta rappresentazione simbolica di ciò di cui parlo, l'uomo che tramite il verbo "esatto" con la voce altisonante e la partecipazione tutta del corpo e dello spirito, compie un atto divino, con tono eroico e con la calma del guerriero che ineluttabilmente otterrà un esito esatto, perchè non è lui a chiederlo, ma è la parola stessa che lo attraversa e che necessariamente si realizza, plasmando e alterando la figura stessa del proferitore di verbo.



Vedete, chi vi scrive, si guarda bene dallo scimmiottare idee altrui e dal bardarsi dietro concetti immortali, forte del fatto che, in quanto antichi, debbono essere in qualche modo validi, magari compiendo una romantica  fuga da questo tempo, verso ere in cui l'uomo era diverso e più collegato naturalmente con il tutto: non è così e se qualcuno dovesse pensare ciò, è perchè al proprio interno ha un'idea formata da dati compiuti e sonnolenti, idea  totalmente erronea e figlia di sistemi mentali chiusi ed auto-descrittivi, uno dei regali della modernità.
L'esperienza e la vita mi hanno spinto in svariate direzioni, prima di farmi parlare di certe cose, prima di farmi rendere conto in modo assoluto, che la "conoscenza" debba inanzi tutto partire dalla "coscienza" stessa legata al concetto di questa parola e, per fortuna,  sono approdato ad essa, nella maniera più corretta possibile, ovvero trovandomi a ricostruire il percorso che determinati concetti hanno sin dalle origini, partendo realmente dall'inizio, non de-costruendo un qualcosa al contrario e dalla fine di questo qualcosa (cercando di rimettere inutilmente il dentifricio nello tubetto) in un'ipotetica linearità di tempo, vanificando così la vera pulsione conoscitiva: non si fa retro-ingegneria simbolica, a meno che ci si voglia fermare alle bucce dei frutti.

In passato, la mia voglia di andare oltre il materiale, mi ha spinto senza sosta a praticare la meditazione, sotto ogni forma, spesso senza regole, senza principi precisi da seguire, seguendo per così dire  "empiricamente" la mia idea di meditazione: quando riuscivo a restare in quella fase di coscienza situata tra sonno e veglia, di calma e vigilanza, spesso vedevo qualcosa, qualcosa che mi risultava difficile da spiegare, ma solo finchè cercavo di dargli un senso tramite altri concetti, era un insieme di elementi compiuti, perfetti, comprensivo di forme come il triangolo, il cerchio e che ruotava inanzi a me e cambiava al suo interno in continuazione e, più restavo traquillo, più riuscivo a comprenderlo, sentendo e vedendo(vedere internamente) che quella forma, conteva tutto, tutte le essenze, da molti punti di vista, geometrici, emozionali, numerici e seminali.
Chiaramente, ho pensato per tanto tempo che fosse qualcosa di personale e, sbagliando, non davo peso più di troppo al tutto, non tentando nemmeno una qualsivoglia rappresentazione su carta, date tra l'altro le mie scarse capacità come disegnatore, fino a quando una volta, in una libreria, mi sono trovato di fronte ad un librone, il cui titolo era "Mandala": al tempo conoscevo poco e niente della cultura vedica ed indù, ma sin dalla copertina rimasi sbigottito, perchè vidi una variante della mia visione meditativa; aprendo poi il libro, mi sentii quasi spogliato, come se fossi stato spiato internamente e come se fosse sparito per un istante, l'idea di limite, tra me, tra le altre persone, tra il passato, il presente ed il futuro, fino a farmi mettere in discussione il concetto di fantasia e personalità: la mia presunta visione originale, la punta di diamante della mia esperienza interiore era più pubblica di una notizia sulla prima pagina di un quotidiano ed era millenaria, pur essendo parte di me.

Diciamo che, arrivati a questo punto, si potrebbe dire che questa  è un esperienza di "visione  archetipale", descritte bene da Jung, ma in realtà c'era altro: non era solo un'immagine  a cui poter attribuire migliaia di significati, ma c' era il senso di primordiale che, al momento della scrittura/definizione mi avrebbe portato a cercare di  descrivere al meglio la mia non solo mia-visione, con il senso di contenitore di essenza, un'univocità immagine/senso del'immagine/suggestioni incorruttibili.
Bene, questo è proprio il significato della parola Mandala (Manda = essenza | la=possedere), un contenitore di essenze.


Un simbolo, multiforme e cangiante, con un significato su più livelli(l'insieme di tutti gli inizi di tutte le cose)che agiva su di me, nel suo unico modo possibile, internamente e che si allacciava alla mia capacità di linguaggio in maniera necessaria, senza possibilità d'errore.
In seguito, come con una specie di  principio dei vasi comunicanti, tra me e il significato derivato dal mondo che è stato, ho inziato realmente a comprendere sulla (e sotto)la mia pelle, l'illusorietà del tempo e delle forme, assestandomi tra sentire interiore autentico e analogie tra culture e tradizioni, ho visto il me stesso mettersi da parte per far posto a quello che, in altri tempi, era fiorito in altri, ho visto qualcun'altro del passato e del presente completare una mia visione, come ho visto una parte di me, completare quella di qualcun'altro, sempre con processi analogici che esaltavano un'idea principiale e mai chi quell'idea la professava, essendo questa la garanzia stessa della veridicità del conosciuto.
Ma ho dovuto farmi da parte e  tanto: le mie esperienze terrene, i miei sentimenti, la mia oggettività, spesso risultavano(e risultano) un enorme ostacolo per la comprensione di fatti che, non sono certo il prodotto della mia vita e della vita di altri, ma sono un fluire di vita sopra la vita.
Ho lentamente iniziato ad appropriarmi del concetto di conoscenza, come sempre di più intendo ed intenderò, che è totale: non accumulazione di dati e sperimentazione, non sperimentazione e descrizione, non idee di altri e rielaborazione, ma costruzione all'infinito di quello che è, è sempre stato e sempre sarà, onorando me stesso come alfiere e onorando tutti gli altri alfieri che hanno lasciato traccia nella storia e nel mondo, di un quadro che può essere ricostituito, a partire da noi e a partire dalla ricerca che, piano piano, si manifesterà innanzi ai nostri  occhi, al momento in cui noi ci accorgeremo di lei.
Ormai non posso più asserire di conoscere la verità di qualsiasi elemento, se non ho compreso il principio di esso al mio interno, ricostruendolo: così facendo, probabilmente, potrei conoscere realmente solo poche cose, in questa vita, ma solo così,  forse,  ci si può rendere realmente conto della potenza di un divino, che ha e conosce tutto in sè da sempre e far si che ogni tanto esso ci sfiori, lasciandoci assaporare l'ergia vitale delle qualità, contro quello delle quantità, facendoci riconoscere la potenza dell'ossigeno vero, contro quello di un banale gas euforico.
"Conosci te stesso" scritto su un tempio e non da altre parti, è il vecchio e, al tempo stesso, il bambino dentro di noi che può farci appropriare della nostra piccola ma potente parte di conoscenza autentica.

"Nell’oceano del nettare, nell’isola delle gemme
circondata da alberi di doni, nel giardino delle delizie
nella casa del pensiero adamantino, è seduta in grembo al grande Shiva
colei che è onda di coscienza e beatitudine
la verità venerata dai più santi tra i santi."